Luglio 2015
18 canzoni in tutto. Le guardo, le risuono, controllo gli accordi, segno i bpm, sistemo tutti i testi.
“Cosa potrebbe piacere di più? Che cosa potrebbe colpire di più? Quali sono le canzoni più belle?”
E’ come chiedere a una madre che figlio preferisce. Per me sono tutte importanti, alcune ammetto ancora un po’ acerbe, ma hanno tutto il loro significato, il loro perché. Se ne scelgo una e ne scarto un’altra mi sembra di fare un torto a me stessa e sono punto a capo.
Questo perché in Antifragile verranno inserite dalle 8 alle 10 canzoni. E la bastiancontrario che è in me mi dice di non fare la fighetta mainstream ma di scegliere le più sincere, la marchettara invece sostiene di scegliere con malizia. Perché avrò un solo colpo in canna e devo mirare bene.
Ce ne sono alcune scritte qualche anno fa, come “Scampo”. Mi ricordo bene dov’ero quando ho composto i primi versi. Ero in un appartamentino all’Arcella, notte fonda, e la mia compagna di stanza non c’era. Stavo dormendo e mi svegliai di soprassalto per un rumore dalla strada.
“Marta?”
Silenzio.
Marta non c’era, c’erano le sue lenzuola senza una piega e le sue scarpe ai piedi del letto.
Presi il blocco appunti e cominciai a buttare giù le prime righe, senza pensare troppo.
Wow. Una storia che si scrive da sola. Ovviamente non stava parlando di me, nè di Marta. Da un’immagine, dall’incipit è uscita così. Una donna vittima di violenza domestica.
L’ultima nata è invece “Non mi somiglio per niente”. Vergata sotto la stessa cerata coi girasoli che ha ospitato Maddalena, Waterboarding, Offerta Libera.
E già il titolo dice tutto. Quando ero ragazzina giocavo a fare i conti con quello che avrei fatto a una data età. A 29 anni mi vedevo realizzata lavorativamente, con una casa, forse sposata (ma non è mai stato necessario), comunque in una posizione abbastanza stabile. Gli anni a venire hanno spazzato via tutte queste convinzioni, e in più ci si mette quel certo peso sociale che una donna “a una certa” se non si sposa e fa figli è per forza una stronza arrivista, e se si sposa e fa figli lasciando il lavoro o chiedendo il part-time è una sottomessa. Mi son divertita a inserire una serie di frasi fatte che si sentono da tv, giornali, annunci online:
19 agosto 2015 – 24 agosto 2015
Stefano ascolta attentamente tutte le canzoni. Alla fine nella rosa finale ne entrano 13, puramente per una questione di “maturità compositiva”. Alcune sono ancora delle bozze e vorrei ragionarci ancora un po’ su. Buttiamo giù le guide a tempo di chitarra e voce che poi verranno “vestite” dagli arrangiamenti.
“Direi di lavorare su tutte, poi vediamo in corso d’opera cosa tenere e cosa no” suggerisce Stefano “Adesso è solo una questione di impasto”
Mi fa sempre sorridere pensare alla musica come al cibo, ma molti dei termini che vengono utilizzati in fase di studio, arrangiamento, prove e quant’altro vengono presi a prestito dall’ars culinaria. Se fossi Pico Rama o Yari Carrisi (gli amanti di Pechino Express mi capiranno) vi direi che ci sta perchè la musica è il cibo dell’anima, ma non sono così illuminata, perciò accontentatevi di sapere che ogni musicista cadrà nel tranello della metafora gastronomica. O sessuale, altre non credo di averne sentite.
Ecco sì, un bell’album è un piatto, se vogliamo. Devi saperlo cucinare e condire nella giusta maniera, inserendo sì un sacco di sapori e retrogusti, ma tutti ben dosati, con la giusta preparazione, presentazione e temperatura. Basta un niente per rovinarlo. E un bel piatto resta sempre un evergreen che non invecchia con gli anni.
“C’è un’anima abbastanza distorta e un’altra molto acustica in queste canzoni, bisogna trovare il giusto equilibrio. E il giusto equilibrio si trova ascoltando. Diamoci qualche settimana di tempo e ascoltiamo quello che potrebbe essere affine a quello che abbiamo in testa. Ascoltiamo quello che ci emoziona e poi confrontiamo i nostri ascolti”
“Che cosa ti emoziona?”
E’ come se qualcuno avesse spezzato una catena. Mi si è aperta una voragine dentro: ogni giorno facciamo delle cose che non ci piacciono perché costretti, perché il fine giustifica i mezzi, perché le cose che amiamo non ci danno abbastanza pane. E allora le lasciamo lì, vivendo un’80% di giornata di merda e un 20% di estasi. Ma quello schifo lo sentiamo, lo annusiamo, ci entra così tanto nella pelle che il resto sembra inarrivabile, inaccessibile.
A me quelle parole sono sembrate un’improvvisa ventata di libertà, di quella che avevo chiuso nel cassetto e che ora prende aria, di quella che ti fa lamentare di meno e ti rende meno stupida, di quella che rende la vita e il mondo un posto un po’ meno spregevole.
Oggi si torna in studio, oh yeah!