PREMESSA:
Ci ho pensato bene prima di scrivere questo articolo, il rischio di suscitare pietà o un certo tipo di pornografia sentimentale è molto alto quando si parla di disturbi depressivi.
Eppure lo faccio per quella grande fetta di lettori che, come me quando stavo male e non ero in grado di esprimermi, hanno trovato un po’ di se stessi nelle parole degli altri.
Il mio racconto sarà un po’ sparso, un po’ deviato, come tutti i pensieri che faticosamente ho raccolto dalla loro forma stropicciata e ho piegato, e cercato di mettere vicino alla parole di chi mi è rimasto vicino in questi mesi.
Buona lettura!
Elisa
A quanto dolore abbiamo provato tutti noi, per una situazione o per l’altra, a quanto siamo stati messi alla prova.
A quanto vorremmo dirci l’un l’altro che ci vogliamo bene, che ci siamo, ma magari non riusciamo ad esserci come l’altro vorrebbe, o perché siamo impegnati in una battaglia di cui pochi o nessuno sa, o semplicemente perché la vita ci ha induriti, anestetizzati, stancati.
Perché dichiarare il dolore in questa società ci rende vulnerabili, fragili, incompresi da chi appunto, il dolore dell’altro non lo vuole vedere e lo minimizza, lo caccia, lo ridicolizza.
Mentre scrivo do uno sguardo a Viviana, una ragazza eccezionale.
La fisso, e mi sorride, bellissima nel suo abito celeste.
Viviana non c’è più e non ho memoria di una volta in cui non mi sorridesse con ogni parte del suo corpo: con gli occhi, con la voce, con le mani.
Aveva una luce bellissima, le ho voluto molto bene e la sua foto l’ho messa nello studio, circondata dai libri di musica, di lezioni di allievi, dei miei strumenti musicali, dalle note “Vivere” di Vasco Rossi che tanto stiamo suonando in questi giorni.
Mi hanno chiesto di cantare al suo funerale, alla fine, e io ho fatto il mio meglio, anche se avevo la voce strozzata, emozionata, liquida e raggrumata.
Ho letto da qualche parte che il canto e la musica, prima di essere portati a una dimensione elitaria, era alla portata di tutti, era una preghiera, un’elevazione dal quotidiano per sollevare lo spirito.
E’ stato in quel momento ho pensato che non si sfugge mai alle proprie vocazioni. Come dice Silvia Magnani, le vocazioni appaiono un po’ prima dell’adolescenza, noi già da piccoli sappiamo benissimo cosa fare. Il calciatore, la suora, il prete, il cantante: se abbiamo una vocazione o la assecondiamo, o ci mettiamo una coperta sopra.
Ecco: nel momento più delicato della mia psiche, mi hanno chiesto di essere voce. La mia vocazione primaria.
Ricordo Matteo che mi versa un bicchiere d’acqua dopo avergli dato un calcio dialettico in pieno petto, ricordo Adam che molla il suo panino mentre sta sotto una panchina assolata per darmi una mano a disarcionare il carrello della spesa, Silvia che educa la mia voce in una stanza veramente afosa, Chiara che mi prepara da mangiare, mi prepara un letto e mi fa passeggiare, mia mamma che mi stringe e mi dice “calmati, calmati, sono qui”, Alberto che mi regala una serata al Conestoga, Stefano che mi mette dello zucchero nel caffè e me lo porge.
Ricordo che me ne sto accovacciata per terra con la bicicletta vicino, incapace di camminare o di non dire altro che “mi sento poco bene”.
Sento le sirene dell’autoambulanza, mi caricano e mi tengono al Pronto Soccorso di Abano Terme per qualche ora.
Sono tutti gentilissimi con me, e io quasi mi sento in imbarazzo che qualcuno si stia prendendo cura di me.
Posso dire che tutto è arrivato insieme, male e forte. Il Covid, la mia famiglia, i miei affetti, il mio studio, il mio futuro. Il sassolino è diventato una valanga, e per me non è stato più facile controllarlo. Credevo che una pausa forzata mi insegnasse a riflettere e a diventare una persona migliore, e di fatto per alcuni versi è stato così, per altri versi è stato un forte acceleratore delle mie paure e dei mostri che continuo a tenere nascosti dentro l’armadio. Ognuno di noi in questo periodo ha fatto i conti con i propri livelli di sofferenza, di crisi, di domande insolute e di progettualità.
Ascolto Marco Paolini dalla prima fila nel cortile del Teatro Villa dei Leoni, visibilmente segnato in volto. Sono stata l’ultimo biglietto dell’ultimo giorno, trovato per fortuna. Penso che mi sento molto bene nel sentire qualcuno raccontare, darmi il suo lucido punto di vista sulla situazione. Concordo sul fatto che questa non è una ripartenza, è una pausa, e non so se la mia mente potrà resistere a un secondo lock-down. Penso che mi mette un po’ di angoscia assistere con la mascherina e distanziata a uno spettacolo teatrale, la mia testa si rifiuta di pensare che questa situazione possa essere permanente, ma un’altra parte la teme e non sa come reagirà.
Mentre sorrido a qualche battuta di monologo, penso a come Marco si possa sentire dopo la vicenda che l’ha colpito. Se si sente ancora in colpa per quello che gli è successo, se gli fanno male le risate del pubblico come avevo letto in un articolo di giornale e allora cerco di contenerle, mascherarle ed è facile mascherarle con una diamine di mascherina, ironia della sorte. Penso che Marco, come me e tanti altri, ha fatto i conti con il concetto di irreversibilità, ovvero che la sua vita da un certo punto in poi non è potuta più essere la stessa.
E come si sopravvive a una condizione di irreversibilità?
Ho smesso di ascoltare musica, e di farla. Mi sono persa molte cose in questo periodo, molte occasioni, chiedo scusa a tutte quelle persone che aspettavano da me delle risposte, ma l’apatia porta a rendere ogni cosa difficile, come se fossi schiacciato da un peso di una tonnellata e il compito sta proprio sopra una montagna altissima.
Quando stai veramente male perdi persino la forza di chiedere aiuto, ti sembra tutto piatto, tutto inutile. Quando ho cominciato a credermi in un posto e vedermi in un altro, a non tollerare nessun tipo di stress che non fosse mangiare, bere, dormire, una parte di me, quella più cazzuta, ha pensato che la mia vita, almeno per me, valeva qualcosa. Che non si può vivere mangiando ansia. Che non c’è niente di giusto nel vedersi attraverso una finestra. Che non ci si può vedere finiti a 33 anni. E così ho chiesto aiuto.
Un aiuto vero.
Per te che hai letto fino alla fine, mi sento di dirti grazie, e di dirti che anche nei momenti in cui non ci sei più tu, la tua vita vale. Vale sempre.
E’ il tuo cervello a convincerti del contrario, che è finita, che non servi, ma non è mai così, è un grande inganno costruito da te da cui solo tu puoi uscirne con dei bravi professionisti.
A me suonare fa ancora un po’ male e faccio fatica a farlo, ma continuo ad insegnare e a dare quel poco che ho oggi con tutta me stessa. Ho imparato che a volte si deve solo stare in silenzio perché è giusto così, che i mesi che perdi rispetto agli anni che vivi sono comunque un lasso di tempo che poi si può recuperare. Un silenzio di ricerca è esso stesso lavoro.
A te che continui a leggere, non sei solo, ci sono un sacco di motivi per cui continuare a vivere, anche se ora tu non li vedi. Sei una collana rotta e ci vorrà del tempo per ritrovare tutte le perle e rinfilarle una alla volta, e potrà ricaricapitare di romperti, non lo escludo.
Prenditi cura di te stesso, e del tuo dolore, chiamalo per nome, dagli importanza, presentalo a chi ti ama. E’ il primo passo per stare bene.
In bocca al lupo a te, io so vedere il tuo dolore.
Elisa
Grazie di queste parole Elisa, serviranno a tante persone. Ti abbraccio con delicatezza.
<3
Cara Eli!
Non so cosa dirti, non so fare passi avanti né indietro quando mi affaccio verso il dolore degli altri (dove lo ho letto qualcosa di simile?).
Tu però fai sempre passi in avanti nella felicità degli altri, con la tua musica che è sempre un dono.
Avanti sempre e coraggio. Daje. Su. Forza.
<3